Voci dal carcere: Anna si racconta – decima parte

Anna è una donna forte e tenace. Quando la incontro è felice di vedermi e mostra sempre grande compostezza nel raccontarsi. La fede illumina la sua vita e le dà uno scopo per sopportare la detenzione. In carcere offre sempre aiuto e conforto alle sue compagne. Di seguito un nuovo capitolo della sua storia.

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In quel tepore di casa cercai di ritrovare un filo di interesse per rimettere insieme un po’ tutto: pensieri, impegni e progetti che sembravano oramai lontani da me. Bisognava adesso rimuovere l’ennesima sofferenza, il dovere mi chiamava e gli impegni mi vessavano come macigni. Rimuovere, affrontare, adeguarsi, convivere con quel vuoto che si era venuto a creare. Sapevo che mi sarebbero mancati i consigli, gli scontri sempre fruttuosi con quell’uomo che della vita sapeva tanto e tanto mi aveva insegnato, tirando fuori il meglio di me, le mie capacità, il mio intelletto, il mio talento nel quale non avevo mai creduto o meglio, che avevo sottovalutato.

Adesso spettava a me capire anche nelle situazioni più difficili cosa fare e tracciare il percorso del futuro lavorativo impervio e tortuoso. Rannicchiata su quel divano, il mio pensatoio da sempre, mi sentii persa, sola, mentre finalmente quelle lacrime che in più occasioni avevo ingoiato, mi rigavano il volto, quasi come in senso liberatorio. O forse era la voglia di vivere qualche attimo che fosse tutto mio. Una donna qualsiasi, un essere umano che almeno per una volta e per qualche minuto riusciva ad essere se stessa, dedicandosi qualche stralcio di vita per sé, senza solo dover pensare agli altri. 

Uno squillo di telefono mi portò alla vita di sempre, il display illuminava il numero del centro cottura di Viterbo. Pochi attimi di tentennamento e poi con determinazione risposi a quella voce dall’accento romano… Poche parole… «Dottoressa, siamo con Lei e vicine al suo dolore, ma non ci abbandoni, venga qui, penseremo noi a Lei». Quel «Grazie, siete molto cari», fu l’unica cosa che riuscii a dire, soffocando con forza quei singhiozzi che non riuscivo a frenare.

Il giorno dopo, di buon ora, mi recai al Centro Cottura di Villa Literno. Un silenzio pesante e incombente avvolgeva il luogo. Il viso dei lavoratori era cupo e anche preoccupato per il domani. Rassicurai tutti con la frase fatta e d’obbligo «La vita continua. Abbiamo degli obblighi da rispettare oggi, da espletare in modo migliore di prima». Quando i grandi se ne vanno, volano su in cielo e si alleggeriscono della loro grandezza lasciandocela in dono. Chi resta deve saperne tirare fuori i frutti affinché si possa salire sempre un gradino in più con saggezza. 

Dopo aver dato le ultime direttive per i giorni a venire, mi affrettai ad allontanarmi da quel luogo ancora troppo pieno della sua presenza, dei suoi silenzi, dei suoi pensieri preoccupati ormai già da anni sulle vicende giudiziarie che avevano coinvolto lui stesso e le aziende dei figli. Forse sarei dovuta rientrare a casa, ma all’imbocco della superstrada, l’auto come in automatico, imboccò l’autostrada per Roma. Sapevo che raggiungere Viterbo sarebbe stato non solo un obbligo, ma un motivo per allontanarmi da un fiume di tristezza. 

Arrivai alle 13, in pieno orario lavorativo. Tutto funzionava alla perfezione, pensavo osservando da lontano gli operai che caricavano i contenitori del cibo sui furgoni da dispensare nelle varie scuole della città, al carcere di massima sicurezza (per gli agenti), alle caserme dell’areonautica… Con un po’ di fatica salii quella scala per arrivare al centro e tra lo stupore di qualche dipendente, la notizia del mio arrivo raggiunse tutti nell’arco di qualche secondo. 

Mi trovai tra un groviglio di abbracci e calore, i miei ragazzi stavano dimostrandomi il loro affetto, la loro dedizione per tutte quelle battaglie che avevo combattuto per loro, per le loro famiglie e per il loro futuro. Io ero quell’albero forte come una quercia e essi quei rami, fiori e foglie nati e legati a quella fortezza per la quale e per qualche giorno avevamo temuto che si indebolisse. In quel bagno d’affetto capii quanto mi era stato lasciato in eredità, probabilmente il più bel regalo, o la migliore rendita a cui si potesse aspirare. 

Sapevo adesso quanto ero amata e non solo per quello che davo con il lavoro, ma come donna, madre, imprenditrice e questo mi fece sorridere. Cominciai a raccogliere i frutti di ciò che mi era stato insegnato, a credere sempre in me stessa e nelle mie capacità. Attraverso la finestra degli uffici splendeva un sole raggiante, caldo. Riuscii a guardare quella luce con un cuore colmo d’amore e fiducia, consapevole che dietro uno di quei raggi c’era lui. Un linguaggio per dirmi «Continua a splendere per te e per gli altri, ce la farai, io ci sarò sempre, non sarai mai sola». Pensavo non lo sarei mai stata, attanagliata da una grande forza di fare, continuare, meglio e più di prima…

SEGUE…

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