Anna ci ha insegnato a comprendere che da un momento all’altro si può cadere nel baratro della disperazione. È il racconto di una donna comune, colta e determinata, che ha raggiunto l’apice e del successo e poi è piombata in una catena di eventi che l’hanno portata alla detenzione.
Ecco la sua settima porzione di una storia che ci tiene tutti col fiato sospeso.
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“E quando pensi che tutto sembra riprendere la propria piega, quando pensi che la strada tortuosa sia finita e quella spianata non sia più un miraggio…ecco cadere l’ennesima tegola, un macigno, una stangata che segnerà il destino delle aziende, dei lavoratori, il mio, che da quel momento non sarò più la stessa. Tornando da Viterbo dopo giornate intense e difficili, laboriose nell’allestimento di buffet commissionati dal Comune, vengo raggiunta da una telefonata di un mio dipendente di Napoli che dal centro di cottura di Villa Literno, nel ritornare dal giro di consegna dei pasti, aveva trovato riverso sull’asfalto il corpo del titolare, o meglio del creatore dell’azienda. Ancora vivo, riuscì a riferire di essere caduto dal tetto di uno dei tanti edifici aziendali. Il dipendente aveva allertato il 118, chiamato la famiglia e allertato tutti. La notizia mi colpì come un tonfo, guidavo come un’automa cercando di convincermi che tutto si sarebbe risolto, che ce l’avrebbe fatta. Un uomo così, che aveva preparato un impero, non poteva andarsene.
Un uomo generoso, un grande imprenditore dal 1995 tormentato da vicende giudiziarie che lo vedevano accusato di collusione con la mafia. Un uomo che, nonostante tutto, continuava a sperare, un cancro alla gola ed al polmone (operati con successo). Continuava a sopravvivere con forza ad una situazione giudiziaria che lo vedeva solo spettatore di quel patrimonio che aveva creato da solo e che ora era gestito dai suoi figli. Quell’uomo che anni prima aveva creduto in me, riconoscendomi un talento manageriale nel quale nemmeno avevo mai creduto.
Quell’uomo che affidava anche tutta la sua parte giudiziaria a me, chiedendomi di seguirla. Aveva grandi preoccupazioni per suo lavoro (e per i suoi 150 dipendenti) che rischiava di essere completamente distrutto. Quell’uomo che era riuscito a non soccombere alla mafia locale, che lavorava sempre, incessantemente, dando la possibilità a tante famiglie di lavorare, ora era steso sull’asfalto come un animale investito da un’auto… muto ed indifeso, con gli occhi verso l’alto, probabilmente in dialogo con Dio… Lui grande cattolico, praticante, uomo di fede, se ne stava andando SOLO!
Arrivai a casa e telefonai subito ai figli, i quali mi informarono che il padre era stato ricoverato alla clinica Pinetagrande. La diagnosi provvisoria fu di rottura di bacino e femore, trauma cranico, escoriazioni varie, ma lucido.
Nelle more, cercavo di mettere a posto le mie cose. Nell’ammazzare quel tempo che avevo sempre combattuto perché nel lavoro non mi bastava mai e che in quell’occasione trascorreva lento, straziandomi di ansia e dolore. Stavolta vivevo una situazione anomala: non potevo combattere nulla, non c’era nessun atto da studiare o situazione da poter sbrogliare, ma solo pregare, pregare Dio che lo salvasse da una situazione che gli stava costando la vita e che non meritava. La preghiera talvolta diventa l’ultima spiaggia o rifugio di salvezza, misericordia. Ho imparato da questa esperienza, che essa deve essere praticata sempre e non può essere considerata solo un’ancora, ma un modus vivendi per salvarci o quanto meno aiutarci a sopravvivere nel modo migliore.
Sì sopravvivere, perché è questo a mio avviso il termine più adatto per descrivere la nostra presenza sulla Terra. Siamo di passaggio destinati a correre, a soffrire per gioire in una realtà che non è terrena, ma è dopo la morte e che la si può considerare vita. Il giusto premio dopo patimenti e dolori, percorso che conosciamo o meglio riconosciamo attraverso il calvario e la crocifissione di Gesù che attraverso sofferenze e morte è risorto al cielo per vivere davanti al Padre…”
SEGUE…