“Mi chiamo Gianluca, ho 18 anni e questa è la mia storia. Per mesi, il DH del reparto di ematologia dell’Ospedale di Salerno è stata la mia seconda casa, ma non per scelta. Ci ero arrivato come paziente, trascinato da una diagnosi che, inizialmente, mi aveva tolto il respiro e riempito di paura. Ricordo ogni dettaglio di quei giorni: l’odore del disinfettante, il rumore delle macchine che monitoravano i miei parametri vitali. Quelle lunghe notti in cui la mia mente vagava tra mille pensieri, in cerca di risposte che sembravano non arrivare mai. In quei momenti, ogni parola di conforto, ogni sorriso di un’infermiera o di un medico, diventava per me un’ancora. Mi aggrappavo alla loro umanità, che era spesso più potente delle terapie stesse. Quei gesti semplici, come un saluto affettuoso o una battuta per strapparmi un sorriso, mi facevano sentire meno solo. Ho lottato, con tutte le mie forze. E grazie alla dedizione dei medici, alla vicinanza della mia famiglia e a una parte di me che non ha mai smesso di crederci, ho vinto quella battaglia. Quando finalmente sono uscito da quel reparto, sapevo che non sarebbe stata solo una vittoria personale. Quella esperienza mi aveva cambiato profondamente.
Volontariato: “Dove ho lottato per la vita oggi regalo speranze”
Essere volontario è diventato per Gianluca il suo modo di ringraziare la vita
“Mi chiamo Gianluca, ho 18 anni e questa è la mia storia. Per mesi, il DH del reparto di ematologia dell’Ospedale di Salerno è stata la mia seconda casa, ma non per scelta. Ci ero arrivato come paziente, trascinato da una diagnosi che, inizialmente, mi aveva tolto il respiro e riempito di paura. Ricordo ogni dettaglio di quei giorni: l’odore del disinfettante, il rumore delle macchine che monitoravano i miei parametri vitali. Quelle lunghe notti in cui la mia mente vagava tra mille pensieri, in cerca di risposte che sembravano non arrivare mai. In quei momenti, ogni parola di conforto, ogni sorriso di un’infermiera o di un medico, diventava per me un’ancora. Mi aggrappavo alla loro umanità, che era spesso più potente delle terapie stesse. Quei gesti semplici, come un saluto affettuoso o una battuta per strapparmi un sorriso, mi facevano sentire meno solo. Ho lottato, con tutte le mie forze. E grazie alla dedizione dei medici, alla vicinanza della mia famiglia e a una parte di me che non ha mai smesso di crederci, ho vinto quella battaglia. Quando finalmente sono uscito da quel reparto, sapevo che non sarebbe stata solo una vittoria personale. Quella esperienza mi aveva cambiato profondamente.