Voci dal carcere: “T. mi accolse in cella con un gran sorriso”

Anna racconta la storia della sua compagna di cella, la storia di una persona semplice ed amorevole che, per un pezzo di strada, l’ha accompagnata e consolata durante il difficile percorso carcerario.

“Questa é la storia di T., una cinquantenne bionda, magra, madre di due figli: A e V. Sono stata accolta da lei in cella, quando fui spostata dal secondo piano del carcere al terzo, dopo aver trascorso i miei tre mesi di osservazione e da volontaria nella biblioteca dell’Istituto. Il terzo piano è la sezione del progetto di reinserimento ed educazione, quella delle pene definitive, per le persone tranquille impegnate tra lavoro e volontariato. Entrai alle 14 in cella, una cella di sei persone e lei mi colpì per il suo sorriso, la sua determinazione, accogliendomi con grande educazione e benevolenza. 

Il disagio sparì subito in me, io che sono un’abitudinaria e in quell’ambiente ero pronta al peggio, ma mi dovetti ricredere subito. Già l’aria che si respirava era di per sé accogliente, serena, rispetto a ciò che avevo vissuto al secondo piano, un gruppo di persone in attesa di giudizio, pieni di speranza di essere fuori al più presto o in attesa di una futura condanna. Nel frattempo l’unico desiderio anelato era quello di avere, nelle more, i domiciliari. Un continuo via vai di gente, ma difficilmente i posti rimanevano vacanti, i materassi senza lenzuola sostavano solo per poche ore, poi subito il rimpiazzo, anticipato dalla sirena delle guardie la cui eco giungeva dal portone del carcere fino a noi. Era portavoce sempre dello stesso messaggio: è arrivata un’altra detenuta a Pozzuoli. 

Titta prese le mie borse e subito mi mostrò l’armadietto dove riporre i miei indumenti. Nel frattempo mi fece anche il letto e da allora l’appellativo di “ZIA“, in segno di rispetto per l’età. Questo appellativo é molto ricorrente a Pozzuoli, il rispetto molto meno, quasi latitante. Subito volle sapere di me, della mia condanna e dalle sue domande compresi subito la sua intelligenza, l’astuzia nel capire senza parlare. Almeno fino a quando non sarebbe stata certa di potersi fidare di me.

Per una settimana non seppi nulla di lei, non le chiesi né della sua presenza lì, né di altro. Sapevo che prima o poi, spontaneamente, me lo avrebbe narrato, lo sentivo a pelle, ma doveva prima fidarsi. Lavorava nella lavanderia del carcere ed era molto stimata per come conduceva il suo lavoro che amava. Non ho mai sentito una lamentela, né un ghigno di stanchezza. Elargiva solo sorrisi quando arrivava al piano per il cambio delle lenzuola: il solito gesto di accarezzare la biancheria profumata che con cura aveva ripiegato in singole buste profumate di bucato, di pulito… forse di casa. 

Così, una sera di febbraio, eravamo rivolte entrambe verso la finestra attraverso la quale riuscivamo ad intravedere la piazza di Pozzuoli, sotto l’incessante pioggia che rimbalzava sulle sbarre, iniziò il suo triste racconto. Una condanna di 8 anni per spaccio di droga. Arrestati in un blitz lei, il marito e il cognato. «Sono qui per lui» – mi disse, mentre le lacrime le rigavano il volto. Le indagini erano partite da una intercettazione telefonica, una telefonata indirizzata al marito alla quale lei rispose. «Siamo a Cassino dalla zia. Peppe é impegnato, più tardi arriviamo». Una zia che stava male e dopo 20 giorni morì, a cui la coppia aveva fatto visita proprio per la situazione di una salute oramai carente. Quella telefonata fu oggetto di interpretazione errata da parte dei giudici che la ritennero complice di spaccio di cocaina

Il processo portò ad una condanna. Fu lei stessa a costituirsi al carcere di Benevento. Lei, fissata in modo maniacale per la casa, le faccende, i figli, di sua volontà si costituiva per espiare quando le era stato inflitto. Dopo due anni il trasferimento al carcere di Pozzuoli. La sua pena erano i figli, lasciati fuori senza padre e senza madre, entrambi detenuti al carcere di Benevento. Il racconto tra i singhiozzi del suo figlio maggiore che in una rissa con gli amici aveva ferito un extracomunitario e la sua condanna a 11 anni. Tradito dagli amici, risultò unico colpevole dell’aggressione e la condanna lo condusse al carcere di Poggioreale. 

Le mani sullo stomaco quasi a voler calmare quella morsa che la stringeva… quel dolore insopportabile una famiglia oramai distrutta ed il pensiero incessante per V., i suoi 16 anni, affidato alla nonna anziana. Solo videochiamate, niente colloqui. Per lei non c’era mai nessun familiare ad aspettarla giù. Arrivavano le lettere del marito alle quali rispondevo io per lei. T. non sapeva scrivere, né leggere. La scuola non l’aveva frequentata: l’aveva fatta per strada, tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli. Lei che dinanzi alle coltellate che la vita le infliggeva, non si arrendeva, si fortificava con rabbia, determinazione, voglia di andare avanti. Sì perché tra le nostre numerose risate affioravano ricordi comuni come il caffè al Gambrinus e lo shopping a Via Toledo. Alla fine ci perdevamo in un fortissimo abbraccio… abbraccio vero, fatto di solidarietà, affetto, protezione, aiuto. Quella cinquantenne bella, forte e determinata era cresciuta troppo in fretta, senza un’adolescenza… L’adolescenza le era stata negata dalla vita dura di quel quartiere, dalla visione del corpo di suo padre inerte, tra le urla, gli sguardi dei curiosi. Suo padre ucciso con arma da fuoco. 

Fidanzata con P. già all’età di 15 anni, quello che sarà poi suo marito, l’unico uomo della sua vita. Dopo qualche mese, in prossimità di maggio le proposi di richiedere un permesso premio. La esortai con forza anche se lei non credeva in un esito positivo. Io avevo letto l’ordinamento penitenziario e sapevo che c’erano gli estremi per ottenerlo. E così fu… 

Avevamo da poche ore fatto il vaccino per il Covid. T. di corsa salì tre piani e, sbandierando il permesso premio, entrava tra le lacrime in cella. Partì un abbraccio pieno d’amore e felicità ed ancora mi rimbombano le parole di ringraziamento nelle orecchie. Piangevamo entrambe… Dio quanto ero felice per lei… Pensavo a quello che avrebbe provato nel ripercorrere le vie del suo quartiere, vedere suo figlio, riabbracciarlo… 

Rientrò un’ora prima del previsto, la sua voce squillante e trionfante si sentiva già dall’aprirsi del cancello d’ingresso. Mi era mancata, ma ero rimasta serena perché sapevo della sua felicità e, come per empatia, l’avevo provata anche io. Rientrò in cella abbracciandomi e pronunciando poche parole: «Napoli é sempre bella» e ridemmo insieme sui fatti e su tutto ciò che l’aveva meravigliata.

Nell’ottobre di quell’anno le presentai un’istanza per una misura alternativa alla detenzione con affidamento a lavoro presso un garage di Fuorigrotta. Da lì una corsa contro il tempo: l’ansia ogni giorno ci divorava, aspettando la matricola o una telefonata che ci arrivasse l’ufficio preposto di polizia. Aveva smesso di lavorare in lavanderia nel frattempo perché in carcere si lavorava a rotazione. I suoi nervi erano oramai alle stelle e questa situazione di stallo l’aveva oramai provata. T. non puoi tenerla ferma, é una trottola, ma ora era stanca… stanca dei pochi contatti con il figlio che era diventato ingestibile, stanca del carcere.

Un pomeriggio di novembre fu chiamato al presidio di Polizia interno: le avevano concesso gli arresti domiciliari, accogliendo la nostra richiesta. Correndo per le scale venne a dirmelo in biblioteca tra le lacrime… stava andando via da libera… ed io ero felice. “Io non ti lascio, ti voglio bene” – mi disse. “Non voltarti indietro, tranquilla, io sto bene” – le risposi. 

Oggi T. é una donna libera perché ha scontato la sua pena. Ora fa la madre a tempo pieno. Il suo tempo si divide tra suo figlio minore e i colloqui al marito e al figlio in carcere. T. c’é sempre per me, la pieghi ma non la spezzi. Io l’adoro. E’ un pezzo della mia detenzione e del mio cuore”. 

ANNA

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