La dimensione più intima di una detenuta che, con i suoi scritti profondi e carichi di sofferenza, apre una breccia nelle mura carcerarie e nella vita che c’è oltre. Un mondo cristallizzato nel silenzio e nella speranza, spesso nella preghiera e nel pentimento, talvolta nello spazio della brutalità di un animo che non sa più scorgere il cambiamento o l’inversione di prospettiva. A.T., l’autrice della lettera, attinge la forza dalla sua famiglia.
“Mi sono rigirata nel letto ed ho guardato l’orologio (unico oggetto in plastica che mi è stato concesso di tenere): le lancette segnano delle 6 del mattino. E’ stato un rumore brusco dell’anta della finestra aperta a svegliarmi. Con gli occhi chiusi ho assaporato un corto e fiacco raggio di sole riflesso sulle sbarre, che ha contribuito a riportarmi ai soliti pensieri di casa e alla lettera del mio papà.
Ma è quel – tutto a posto? – risuonato dall’esterno che mi ha riportato a questa triste realtà: sono ancora a Pozzuoli e non a casa mia. All’improvviso pensieri tristi e bui mi hanno portata a stringere il cuscino mentre una lacrima mi rigava il volto. Solo qualche minuto per riprendermi, per ricominciare a sperare, per farmi forza nell’affrontare l’ennesima giornata fatta di costrizioni e di mancanza di affetto. I miei affetti chiusi gelosamente nello scrigno del mio cuore e che egoisticamente tengo per me. Ormai la paura e la solitudine mi hanno irrigidita rendendomi avara sui sentimenti e poco incline alla loro condivisione. So che sono cambiata, pochi mesi sono bastati per capovolgere la mia vita, ma so di potercela fare…sì devo farcela per rivivere gli abbracci di mio padre, i baci di mio figlio, le braccia al collo dei miei nipoti. So di poter tornare a riascoltare quel “sei unica” di mia madre che mi ha sempre amata oltre che ammirata.”