Voci dal carcere – Anna si racconta: quindicesima parte

La storia giudiziaria di Anna si intreccia alle vicende personali che la espongono alla sofferenza di vedere un genitore anziano affrontare inaspettate vicissitudini… Di seguito la quindicesima parte.

“Sabato mattina un sole caldo e brillante irradiava le finestre di casa e solo per qualche attimo ho assaporato gocce di felicità lasciandomi alle spalle tutto quel vissuto travagliato da cui volentieri sarei scappata via. Poi uno squillo del telefono mi riporta alla realtà con la voce di mia madre che mi comunicava della caduta di papà in doccia e la sua disperazione perché non riusciva ad aiutarlo ad alzarsi. La rassicurai dicendole che da lì a poco l’avrei raggiunta.

Arrivai a casa e trovai mio padre riverso sul pavimento con la testa appoggiata al muro. Tentò di tranquillizzarmi dicendo che stava bene e che non era successo nulla. Pochi minuti per riflettere sul da farsi dopo aver chiamato il 118. Poi presi una poltroncina, la portai nel bagno e riuscii a sollevarlo e a metterlo seduto. Lo trasportai fino alla camera da letto e, con un’altra rocambolesca operazione, lo spostai sul letto e attendemmo l’ambulanza.

Papà non si lamentava, ma da subito mi resi conto della rottura del femore sinistro, per la posizione che aveva assunto la gamba. Arrivó l’ambulanza che lo trasportó all’Ospedale Moscati di Aversa, una struttura che per anni avevo attraversato in lungo e in largo fornendo su appalto i pasti per i degenti.

Era il 4 ottobre 2019, il suo onomastico. Mio padre sballottato dalla radiologia al Pronto Soccorso, poi il responso: confermata la rottura del femore sinistro. Periodo difficile, ospedali al collasso per il Covid che oramai aveva raggiunto migliaia di ammalati con centinaia di decessi. Fuori e sotto la pioggia con mia sorella aspettavamo, quasi elemosinando notizie di papà, in quanto l’entrata era vietata. Momenti di panico e di paura mi paralizzavano in tutto, mi pervadevano rendendomi incapace anche di rispondere a mia madre, agitata e assetata di notizie riversando su mia sorella le sue preoccupazioni.

Anche stavolta era in gioco la mi famiglia: sapevo che a 81 anni circa quella diagnosi sarebbe stato per papà un lungo calvario. Ancora una volta la sofferenza ci accomunava, ma la paura apparteneva solo a me. Ero dissestata psicologicamente e pensavo solo al peggio. 

Riuscii ad entrare e lo vidi all’interno di un box del Pronto Soccorso disteso su una barella con tutti i sintomi di una persona che avesse la febbre alta. Mi riconobbe e lo tranquillizzai, ma come al solito era lui a tranquillizzare me che tutto sarebbe passato in fretta e che non dovevo preoccuparmi. Parlai con i medici di corsia che mi informavano dell’intervento che avrebbero eseguito appena si fosse liberato un posto in chirurgia. Mi allontanai senza forze e disperata… Non riuscivo ad immaginarlo in quell’ospedale, lontano da casa, dai suoi affetti. Ripensavo alle sue preoccupazioni per noi, per mamma, della quale da più di 60 anni era innamorato.

Dormii con mamma ed il giorno dopo, di buon mattino, comprai dei cornetti ed un cappuccino e mi recai in ospedale. Non lo trovai lì e mi dissero che era stato trasferito all’Ospedale di Torre del Greco, l’unica struttura nella quale avevano trovato posto. La mia reazione fu più che maleducata. La mancata comunicazione del suo trasferimento mi mandó nel pallone facendomi sbottare con i medici in modo incontrollato.

Mi recai all’Ospedale di Torre del Greco e l’infermiere mi avvisó che avrei potuto vederlo solo negli orari designati e con responso negativo del tampone Covid. Riuscii a vederlo ed a abbracciarlo, sapevo che sarebbe stato lui a tranquillizzare me. Gli lessi tanta felicità in volto nel vedermi: traspariva tutta la preoccupazione sofferenza che aveva vissuto lontano da casa e senza nostre notizie, tenuto all’oscuro del trasferimento. Il giorno dopo fu operato mentre io, mamma e mia sorella aspettavamo l’orario delle visite per entrare e poterlo vedere. 

L’intervento era riuscito ed ancora mezzo sedato ci sorrise, senza capire molto di ciò che gli dicevamo. Credo che quell’abbozzato sorriso sul volto, felice di averci visto, fosse partito direttamente dal legame di sangue. A volte dinanzi a certe cose dimentichi il dolore fisico, è come se si offuscasse dinanzi ad una felicità più forte che in questo caso è il fatto di aver superato un brutto accidenti. Gli lasciammo il cellulare nel cassetto perché ci fu impedito di restare e ci allontanammo per tornare a casa. Eravamo apparentemente tranquilli, chiusi nel silenzio non riuscivamo ad interagire tra di noi… 

Per qualche giorno facemmo il su e giu’ tra Napoli e Torre del Greco per portargli da mangiare attraverso il personale addetto. Non potevamo fargli visita ma solo aspettare che ci telefonasse. Poi arrivò il giorno del ritorno ed organizzammo un’ambulanza che lo riportò a casa. Allettato, sofferente e stanco, in attesa che la degenza finisse al più presto attendevamo con ansia le cure fisioterapiche che avrebbero dovuto riabilitarlo nella deambulazione.

Né io, né lui potevamo immaginare che la sua vita non sarebbe stata più la stessa… 

SEGUE…

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