GIORNATA DELLA MEMORIA: l’odio razziale e i campi di concentramento

Cosa ci ha insegnato la Storia? di Ennio S. Varchetta

Eravamo nel 2005 quando l’ONU proclamava il 27 gennaio Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunitasi il 1° novembre 2005, in occasione dei 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento, ha reso ufficialmente il 27 gennaio 1945, una data commemorativa a livello internazionale.

Il Parlamento italiano, invece l’aveva già istituita con la legge n.211 del 20 luglio 2000.

Così il Giorno della Memoria diventa un’occasione per parlare dei valori di civiltà allo scopo di aiutare i cittadini ma soprattutto gli studenti a salvaguardare l’eredità lasciataci da coloro che reagirono alla barbarie della violenza e a lottare con le armi della ragione contro ogni forma di discriminazione e di odio razziale.

Il 27 gennaio si celebra dunque la Giornata della memoria, ma oggi la situazione in Italia e  nel mondo è davvero migliorata? Persone, etnie e minoranze, ahinoi, sono ancora perseguitate e segregate, dalla Libia, alla Corea del Nord, dalla Cina al Sudafrica fino al Sudamerica.

Nel Giorno della memoria, a distanza di 78 anni dalla fine dello sterminio nazista degli ebrei, non solo preoccupano i dati sull’antisemitismo in Italia e in Europa, dove episodi di odio razziale sono ancora presenti, ma inquieta anche la situazione globale, dove la lezione della storia sembra passata purtroppo sostanzialmente inosservata. Nel mondo infatti esistono ancora strutture non dissimili dai campi di concentramento: in altre aree, con altre persone, per altre ragioni e con dinamiche differenti, certo, ma la cui esistenza non è meno intollerabile. Tante persone vi vengono segregate a tutt’oggi, confinate in luoghi senza diritti e in condizioni umanitarie precarie.

In Libia, ad esempio, diverse migliaia di richiedenti asilo sono ancora detenuti per un tempo non definito in circa dieci principali centri di detenzione ufficiali gestiti dal Dipartimento per combattere l’immigrazione illegale. Qui vengono rinchiusi i migranti che arrivano dall’Africa subsahariana con l’obiettivo di raggiungere l’Europa e una vita migliore. In questo modo, questi ultimi restano bloccati in veri e propri lager senza nessuna garanzia e in condizioni spesso disumane. Alcuni orribili ghetti si trovano anche in zone di guerra, altri in aree ad alto tasso criminale dedite alla tratta di esseri umani.

La persecuzione dei rohingya, un gruppo etnico di religione musulmana che abita prevalentemente in Myanmar, va avanti in forma acuita dalla fine del 2016, quando le forze armate e la polizia hanno iniziato una dura repressione contro questo popolo, soprattutto nella regione nord-occidentale del paese. E svariate sono le notizie che le commissioni d’inchiesta birmane, pur ammettendo violenze e crimini di guerra, abbiano negato che sia stato perpetrato un genocidio.

Oltre alle migliaia di morti causate da questa persecuzione, si può delineare il terribile scenario attuale, che vede tanti rifugiati in Malesia dove sono detenuti in appositi centri e trattati come migranti illegali, spogliati di ogni diritto. Il maggior numero di coloro che sono scappati vivono tuttavia in Bangladesh, in quello che viene considerato uno dei campi profughi più grandi al mondo.

Poi c’è la Cina: nei laogai cinesi, dei veri e propri campi di concentramento, vengono portati prevalentemente coloro che appartengono a minoranze etniche (ma anche dissidenti politici). È il caso, ad esempio, degli Uiguri. Secondo rapporti stilati da organizzazioni internazionali, da un milione a un milione e mezzo di persone appartenenti a questa etnia di fede musulmana sarebbero finite senza processo in centri di rieducazione con lo scopo di estirparne tutte le presunte idee estremiste e pulsioni separatiste, di fatto non compatibili con il regime. Alcune stime riportano più di otto milioni di detenuti in tutti i laogai in Cina.

Sappiamo inoltre di numerosi atti di vessazione delle autorità cinesi nei confronti degli Uiguri residenti all’estero, al fine di indurli a rivelare informazioni su altri Uiguri: alcune fonti che si occupano di diritti umani non lo ritengono un genocidio “in un colpo solo”, ma un lento processo di cancellazione di un’identità, una cultura e una popolazione.

E’ inaccettabile che ancora oggi esseri umani debbano subire violenze, torture e vessazioni di questo genere.

E ancora disumanità ci giungono dai campi di Kwanliso: ci troviamo in Corea del Nord e di questi veri e propri campi di prigionia abbiamo soltanto immagini satellitari. Come scrive Amnesty International centinaia di migliaia di persone vi sono rinchiusi essenzialmente per motivazioni politiche. Molte di esse non hanno commesso alcun crimine: la loro colpa è quella di essere membri di famiglie ritenute colpevoli; negli ultimi anni questi luoghi di reclusione si starebbero addirittura ampliando. Le testimonianze di ex detenuti e funzionari rivelano come i prigionieri trascorrono la maggior parte del loro tempo costretti a lavorare in condizioni estremamente disagiate con cibo insufficiente e poche ore di riposo.

Si potrebbe poi parlare dei migranti provenienti dalla Siria, per fuggire dalla guerra, che sono stati stipati in Turchia dopo gli accordi con l’Ue. Oppure citare gli episodi avvenuti al confine fra Stati Uniti e Messico, di cui è stato anche testimone un sacerdote sudamericano, che ha fondato un centro per migranti nella terra dei narcotrafficanti e che vive sotto scorta. Il “Don Ciotti messicano”, così è stato ribattezzato don Alejandro Solalinde, che è stato più volte in Italia, anche a Napoli, per presentare il libro “I narcos mi vogliono morto”, scritto in collaborazione con la giornalista Lucia Capuzzi.

Si potrebbe, insomma, continuare e citare altri casi, e dimostrare quanto ancora oggi non abbiamo superato i problemi dell’intolleranza, dell’odio razziale, delle minoranze e delle differenze e, soprattutto, quanto i diritti umani siano ancora così tristemente violati in tante parti del mondo.

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